Francesco Sabbadini di Pinzano - Altar Maggiore - Tauriano - Il Paese, la Storia, le News e la sua gente

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Testo tratto dalla pubblicazione della Parrocchia del 28 marzo 1981 intitolata:

"L'Altar Maggiore della Parrocchiale di S.Nicolò a Tauriano - 1981"

di Paolo Goi edito da GRAFICHE Missio - Udine


L'ALTAR MAGGIORE DELLA PARROCCHIALE DI S. NICOLO'' DI TAURIANO- 1792
Francesco Sabbadini di Pinzano

Con il suo glorioso patrimonio di storia e d'arte Spilimbergo offusca i paesi attorno.

Motivatamente però non più se poi si da anche a snobbarne taluno, come Tauriano. Perché Gaio, Baseglia, Vacile, Travesio, Provesano, Barbeano hanno i loro Gianfrancesco da Tolmezzo, Pilacorte, Pietro da S. Vito, Pordenone, Amalteo, Narvesa... e con essi Spilimbergo è nobilmente generosa, ma Tauriano che ha?
Nella letteratura ufficiale e di consumo gli affreschi della parrocchiale (male attribuiti) e il Martina(gloria in parte rubata); in quella ristretta degli addetti, un tantino dipiù: sempre poco in relazione al suovero patrimonio, sconosciuto affatto fino a ieri (i restauri sono appunto d'oggi) e criticamente tuttoda vagliare.
E' da più anni che vado schedando il materiale della località. Con la scusa della inaugurazione dei lavori di restauro della sua chiesa, don Sergio Giavedon parroco, mi strappa qualcosa degli appunti ad altro destinati.
E pazienza.
Ricostruita tra gli ultimi del '400 e i primi anni del '500, consacrata nel 1524, dipinta da Giovan Pietro da Spilimbergo nel 1502 e nel tardo Cinquecento da scolari pordenoniani e amalteani, arricchita nello stesso secolo dei due altari laterali dalla foggia a tempietto, decorata in ultimo da Umberto Martina, la parrocchiale di S. Nicolò accampa nel presbiterio un solenne altare rococò.
Ultimo arrivato, questo, viene primo - per la circostanza - ad essere fatto oggetto di illustrazione; con un percorso storico a ritroso che ha le sue giustificazioni.
Per detto comune, la macchina - in marmi bianco e rosso - viene da Venezia.
Questa storia di altari che vengono da Venezia è segnalata ovunque in Friuli.
E' noto che per incameramenti, ruberie, speculazioni e altro, Venezia ha visto la distruzione e la soppressione di numerose chiese e scuole e la vendita del relativo patrimonio d'arte.
Il Sagredo, il Tassini, lo Zangirolami, lo Zorzi parlano di «edifici veneziani distrutti o volti ad altro uso», di «chiese, monasteri e scuole rapinate» restituendoci la triste immagine di una «Venezia scomparsa» e la storia del doloroso esilio delle argenterie, dei quadri, delle statue, degli altari.
Da ciò ha avvio l'idea di una provenienza lagunare per gli altari delle nostre chiese. Tanto più a ragione, in quanto allogati talvolta giusti-giusti nelle absidiole, in poca (o nessuna) sintonia d'arte con esse, danno l'impressione d'una violenza, di una imposizione da fuori.
Idea che ha degli effettivi risvolti (e basti pensare allo stupendo complesso del Meyring a Nimis), ma che è giustificata solo in parte.
Sarà con cattiveria,ma in questa tendenza a considerare prodotto veneziano ogni architettura e plastica di un certo prestigio, in questo nobilitare solo il foresto (e per foresto nel Friuli del ''600-''700 si intende soprattutto Venezia) mi par di scorgere un complesso di inferiorità. Che si traduce poi nel deprezzamento del proprio patrimonio e in un rassegnato abbandono per quanto concerne l''indagine storica (valle a pescare le notizie in laguna!).

II lavoro d'archivio è in grado, al contrario, di accertare che molti altari - i più - sono friulani tutto d'un pezzo; questo di Tauriano compreso, di cui - con la storia - metto anche in luce la protostoria.

Questa è fatta di alcune raccomandazioni e minacce di sospensione (1678, 1682) dei presuli concordiesi per quanto riguarda la dignità del culto eucaristico (provvista di pissidi e ostensorio). Raccomandazioni successivamente volte (1727) alla fattura di un nuovo tabernacolo ligneo e che parroco e capifamiglia ancora una volta non disattendono.
Per raggranellare qualcosa di fruttifero vanno però sette anni.
Dopodiché (1735) la solita trafila: riunione pubblica e votazione unanime (4 giugno), richiesta «in forma» al luogotenente di Udine (5 giugno), permesso di questi (10 giugno), scrittura privata al 19 gennaio (stesa antecedentemente, ma in naturale subordine alla licenza) con Domenico Riegher e Zuanne Petovello (Pettovello) marangoni di Spilimbergo per un tabernacolo di legno del valore di L. 465. Dagli spesari si viene ad apprendere che i maestri d'intaglio Riegher e Pettovello soci - sono coadiuvati da Florean Cecchini da Portogruaro per l'opera di indoratura (pagata a parte con L. 297,12).
Ancora lasciano vedere le carte la natura del manufatto, cupoliforme, poggiante su dei gradini e recante statuette alle nicchie: quella di piccolo tempio, ottenuta per miniaturizzazione di strutture architettoniche, secondo un processo sempre rispettato nei tabernacoli dell'evo moderno.
Tanto dicono i documenti. Il resto, vale a dire la fine dell'oggetto, dovrebbero dirlo sacrestani e piovani. Ma su tanto è opportuno il velo del silenzio.
Cinquantanni dopo, poco più, il lavoro è ritenuto inservibile.
Non si ha a Tauriano un promemoria scritto delle ragioni che indussero a sacrificare l'arredo ligneo a vantaggio del nuovo marmoreo, bensì gli studi fatti che testimoniano ugualmente sulla vera causa: l'orientamento del gusto. Gloria di Dio, zelo eucaristico sono elementi topici, tant'è che nel tempo hanno patito soluzioni diverse. Topico è anche lo stato «caroloso» del legno: stato oggettivo talvolta, ma non sempre e non generalmente, meno che mai comunque alla distanza d'una cinquantina d'anni come nel caso in esame. Resta dunque il gusto.
E' questo che a un certo punto impone anche per Tauriano una struttura solenne, in materiale nobile e solido, e il raschiamento delle vecchie pitture.

ARTISTA Francesco SABBADINI di Pinzano
Ci si affida (1792) a Francesco Sabbadini di Pinzano, un altarista affermato in zona. Il complesso in marmo che per 1000 ducati egli progetta (il disegno allegato alla convenzione è perduto) ed erige, consta di basamento, alzata e statue.
Sulla gradinata (bella e sobria modanatura) si fondano i plinti degli «a tondo» e poggia la mensa. Su questa insistono il tabernacolo serrato tra volute a doppia mossa, decorate con simboli eucaristici, ed il baldacchino a leggera ellisse, forma commentata dell'arco flesso e dal bulbo di coronamento. Al mezzo del ciborio, un leggero bassorilievo a cherubini e divina colomba decora il luogo dell'esposizione del Sacramento.
Due sculture ai corni, raffiguranti il titolare e S. Stefano (prive adesso dei contrassegni del pastorale e della palma) bilanciano e serrano la parte propriamente architettonica con la loro dimensione, positura e mimica.
Eredi nello spirito e nei modi dei plasticatori locali del Rinascimento, esse mostrano nella accentuata volumetria di incontrare i caratteri di riduzione formale e di accademismo affermatisi nel tardo Settecento i quali finivano per avvantaggiare proprio certa maestranza mai mossa dal buon artigianato.
Difetto certamente nelle figure dei santi. E non il solo. Altro ve nè nel meccanico attacco di baldacchino-tabernacolo e mensa.
Neppure si tenterà dunque il paragone con i veneti Marinali, Bonazza, Morleiter, Torretti, Groppelli, ecc., ma neppure si butteranno questi friulani che mostrano di aggiornarsi su quei testi illustri e fragranti (e si veda l'arco flesso del ciborio di massariana memoria), né se ne demoliranno gli altari come s'è fatto addirittura.
Ed è bene, in proposito dir chiaro la congiura che c'è contro di essi: il male, malissimo in cui sono tenuti, senza alcun gusto (e senza rispetto di religione), quando non se ne aggiungano il segamento dei paliotti, la riduzione delle mense, l'asportazione dei gradini, la rimozione dei balaustri, intrapresi con pretestuoso e volgare richiamo al Concilio Vaticano II. Ma oltre la cattiva manutenzione, la parte dell'occhio. Perché l'intensità e l'artificialità della sorgente luminosa cui esso è abituato lo fanno incapace di cogliere il maculato dei marmi, l'alternanze e i calcolati trapassi dei bianchi di Carrara, dei rossi di Francia e di Verona, dei gialli di Torre, dei bardigli, dei verdi «antichi», dei neri di paragone senza anche una opportuna illuminazione.

Conclusione
Nel suo piccolo la storia dell'altare di Tauriano, come si può vedere, è una storia nel genere esemplare. Fin nel modo privato di rogare.
Essa per il momento ha termine.
Sulle maestranze che vi fanno comparsa il lettore resterà a bocca asciutta. Occasionalmente mi è occorso già di parlare di esse, ma devo ammettere che si tratta di personalità poco definite. Avanzare attribuzioni non è difficile (per restare di qua dell'acqua, basterebbero gli altari della prossima Istrago o della lontana Campone), per cui c'è anche da attendersi che qualcuno faccia la sua brava scoperta. Ma ripeto, la materia è numerosa e fluida per cui è preferibile il lento ma sicuro recupero delle tessere prima di avviare la sintesi.
Quanto si è illustrato è, per concludere, piccolo saggio del patrimonio che la parrocchiale di Tauriano conserva.
La grande disgrazia del terremoto che ha segnato morte e distruzione sta pure segnando qualche rinascita.
Nel campo dell'art e ad esempio come prova il restauro che si inaugura. Ondè che se non fosse per la tristitia temporum ci si potrebbe anche lasciar andare al canto dell'«O felix culpa».
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WebMaster Raffaele Tomasella
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